Istinto e combattimento

“Di solito l’istinto ti dice quel che devi fare molto prima di quanto occorra alla tua mente per capirlo”.
(Edmund Burke)

La definizione di Istinto è ancora oggi molto controversa. Molte teorie e tentativi di definizione hanno avuto alti e bassi, alternandosi in base alle conoscenze psicologiche ed etologiche del tempo.
Genericamente oggi per istinto si intende un “Impulso innato a produrre un certo comportamento, innescato da determinati stimoli ambientali.”
Per quello che riguarda noi praticanti di arti marziali invece, risulta essere molto più interessante lo studio del dott. William McDougal  fondatore della hormic psychology (dal greco horme, impulso).
Secondo questo autore, l’istinto è un ponte di congiunzione tra tre diverse pulsioni, rispettivamente collegate all’area cognitiva, emozionale e conativa.
L’impulso a porre attenzione a un determinato stimolo.
L’impulso a provare una specifica emozione rispetto allo stimolo.
L’impulso a produrre un’azione in relazione a esso.
Consideriamo il caso di un pugno che viene portato improvvisamente verso il nostro viso, il nostro istinto ci porta a fare esattamente queste tre cose, porre attenzione, provare un’emozione (paura, sorpresa) e allontanarsi o tentare di parare il colpo.
Sempre secondo McDougal facendo un parallelo tra l’istinto animale e quello umano possiamo dire che ad ogni istinto corrisponde un’emozione:

• L’istinto di fuga = paura;
• L’istinto della repulsione = disgusto;
• L’istinto della curiosità = meraviglia;
• L’istinto del combattimento = rabbia;
• L’istinto della sottomissione = soggezione;
• L’istinto dell’autoaffermazione = benessere;
• L’istinto genitoriale = tenerezza.

Tutto questo è ragionevole, ricordiamo però che tali ricerche appartengono al secolo scorso, molte altre teorie si sono susseguite nel tempo. Tuttavia questa ha un valore notevole perchè come vedremo si concilia perfettamente con le teorie di Paul D. MacLean sul triuni brain, di cui ho scritto in un mio precedente articolo.
Mettiamo insieme le due teorie. Quale è la parte del cervello che elabora contemporaneamente istinto ed emozioni?Si chiama amigdala.
Quest’area del cervello è una specie di grilletto che scatta automaticamente al verificarsi di talune condizioni inviando segnali di attivazione all’ipotalamo e alla neocorteccia innescando a catena il sistema limbico e le risposte adrenalina/noradrenalina. Facendo questo, in frazioni di secondo “sfoglia” l’album delle esperienze passate e se trova corrispondenze e similitudini innesca la risposta precedentemente archiviata in essa.
Abbiamo già detto che non è possibile lavorare direttamente sul cervello rettiliano, tuttavia fino ad un certo punto, è possibile produrre risposte nuove e automatizzarle fino a trasferirne l’esperienza nell’amigdala e in un’altra area chiamata ippocampo che ha anch’essa il ruolo di conservare i ricordi.

vabè
A questo punto vi immagino così! Comunque bravi per la pazienza 🙂

Questo articolo è nato da una domanda fatta in un gruppo su internet nel quale un utente si chiedeva come mai nonostante abbia praticato diverse discipline, anche a contatto pieno, sentiva di non riuscire a liberare completamente il proprio  istinto.
La risposta sta nascosta tra questi meccanismi. quando pratichiamo in palestra tutti i nostri movimenti sono rituali.
La definizione rituale si riferisce a quello che in etologia ( la scienza che studia il comportamento animale) riguarda ad esempio l’esibizione della forza del gorilla che per spaventare gli avversari si batte il petto o fracassa rami e arbusti sul terreno o al cane che ringhia manifestando una certa aggressività non necessariamente seguita da un attacco.
In palestra c’è una forma di tacito accordo di cui siamo consapevoli e in cui abbiamo fiducia: io non faccio male a te e tu non fai male a me. Certo, l’incidente può capitare, ma in genere c’è grande attenzione e rispetto verso l’altro.
Abbiamo regole, abbiamo limiti e un quadro di riferimento entro il quale ci esercitiamo.
Riguardate le relazioni tra istinto ed emozioni sopra citate, non trovate che alcune di esse sono esattamente ciò che accade sul tatami, ring, o terreno di allenamento?
Esiste però un’altro sentimento su cui si può e si deve lavorare ed è la fiducia.
Questa quando è rivolta al comportamento altrui crea le basi per un allenamento o combattimento rituale, per liberare l’istintività la fiducia deve essere rivolta alle nostre capacità di gestire gli eventi che ci mettono in pericolo. Mi spiego meglio. Se il nostro combattimento è prettamente tecnico, il nostro sentimento interno è viziato. La mente cercherà, che lo si voglia o no, la perfezione stilistica, l’applicazione pulita.
Se ci si osserva mentre si combatte in questo modo si potrebbe notare che inconsapevolmente elaboriamo il combattimento come fosse un film in cui vogliamo essere gli attori che danno spettacolo, osannati dalla folla, in poche parole faremo un combattimento edonistico. Facendo ciò l’area rettiliana e l’amigdala non si attivano, essendo questo un campo di cui si occupano la neocorteccia e il paleomammoliano.
Se invece combattiamo per necessità fuori dal ring, la nostra priorità sarà portare a casa la carcassa tutta intera, non c’è spazio per la bellezza, pensiamo solo ad essere efficaci. Ed è qui che l’istinto può esprimersi senza limiti, perchè magari stiamo difendendo i nostri cari o la nostra integrità, perchè saltano tutti gli schemi e si attivano le risposte di sopravvivenza che se siamo stati bravi abbiamo allenato attraverso quei pochi strumenti che il cervello rettiliano ci permette di usare. 
In questo trovo per esempio che il metodo Keysi abbia raggiunto un alto grado di specializzazione, come anche la boxe antica (cestus) o arti simili. Questo perchè l’ingresso nel combattimento avviene con una chiusura a conchiglia che aiuta il praticante a superare il timore del colpo ricevuto pur mantenendo una buona struttura aperta ad ogni distanza.
Una buona cosa in allenamento è lavorare sulle guardie di copertura e ingressi su attacchi continui e senza pause, in questo modo altereremo per quanto possibile la risposta naturale a smanacciare e seguire le direzioni dei colpi avversari, che, come si può ben intuire è una delle peggiori tattiche difensive che si possano attuare. Se saremo col tempo ragionevolmente sicuri che un attacco non sarà più tanto pericoloso quanto nella nostra immaginazione, l’amigdala lentamente registrerà questa risposta di fiducia permettendoci di insegnare al rettiliano nuove risposte.  
Buon lavoro a tutti.


 

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